Tempora

“Ciò che riusciamo ad avvertire mediante l’occhio, l’orecchio, la mano, non è intuizione, ma un suo semplice dato. Solo dopo che l’intelletto risale dall’effetto alla causa, può apparire il mondo, esteso come intuizione nello spazio, mutevole secondo la forma, permanente ed eterno in quanto materia”.
Arthur Schopenhauer

A due anni di distanza dalle fortunate installazioni allestite alla Fondazione Peano con il titolo “Il faut être de son temps – Contaminazioni” e ispirate al tema dei contatti o contaminazioni, appunto, tra i popoli di coinvolgente attualità sociale, Riccarda Montenero torna a intrecciare la propria ricerca multimediale con le azioni creative di un’altra personalità artistica: dopo Paola Malato, ecco ora Ruggero Maggi, figura propulsiva di operatore culturale, che agisce ai confini dello sfavillante circuito ufficiale dell’arte contemporanea, ma stando ben al centro delle problematiche culturali che riguardano l’esistenza dell’uomo d’oggi. Sia Maggi sia Montenero privilegiano l’indagine e la valorizzazione dell’efficacia espressiva dei materiali in rapporto a specifiche riflessioni teoriche. Per entrambi, l’origine dell’espressione artistica risiede nella possibilità di scoprire e di assecondare le molteplici forme che si manifestano nel “caos sensibile” della realtà. Ciascuna, in particolare, delle molteplici manifestazioni del linguaggio visivo di Maggi (dalla pittura alla fotografia, dalle elaborazioni olografiche alla scultura, dalle azioni performative alle installazioni, dall’impiego di materie naturali o industriali o di strumenti tecnologici alle combinazioni argute di parole e immagini) assume il valore di scheggia iconica destabilizzante, che tenta di rovesciare i contenuti ordinari del sistema della comunicazione, prospettando nuove forme di percezione e di presentazione del mondo.
Il progetto che in quest’occasione unisce i due artisti è il tempo. Riccarda lo affronta riconsiderando la presenza plastica dei cloni (neri esseri striscianti, dotati quasi di reattività psicologica, che vagano solitari o in gruppi di due o più soggetti, come spettri in spazi sconosciuti) e dei sembianti di povere valigie d’emigrante, marchiate con i numeri dei giorni dell’anno solare e accostate a sagome sopravvissute e ossessivamente funzionanti di orologi meccanici. Si è di fronte a una realtà visionaria che impressiona, costruita con essenze di oggetti di significato metonimico, da considerare come parti o frattali immaginari di un universo umano caotico, che non funziona per niente come una macchina perfetta, secondo il modello del Mondo-orologio. Oltre agli elementi concreti della propria installazione, sapientemente distribuiti nello spazio, Montenero ha realizzato anche opere digitali, eseguite in 3d, 

stampate su carta e presentate come quadri. 
Maggi, dal canto suo, con semplici guanti di lattice riempiti di terra, dà forma a un atlante ideale di gesti espressi con le mani, simboleggianti le attese e i compimenti dei desideri o delle aspirazioni umane. Mani giunte o intrecciate che aggettano da pannelli appesi alle pareti, scandendo i tempi dell’amore e quelli della preghiera o l’alternanza nella vita di sacro e profano; mani di persone che si cercano, si sfiorano, si uniscono per amore e protezione; mani livide e irrigidite; mani sensibili, trascoloranti e quasi traspiranti come organismi vitali; mani, valigie e cloni posati su atolli di terra o piccole isole di passaggio per esistenze viaggiatrici in sosta temporanea; mani che si soffermano timorose sui margini delle valigie, che sostano nelle loro vicinanze, che tentano un contatto con i cloni, avvicinandosi guardinghe o volitive ai loro corpi nastriformi, fluidi e insinuanti. Tutto l’insieme sembra alludere a un’umanità in lotta con il tempo, costretta a perderlo, a rincorrerlo e forse, alla fine, a ritrovarlo, a riscoprirlo come tempo di bellezza e di autenticità dei sentimenti. 

Vivere allora in una società multietnica e interculturale qual è quella attuale, i cui soggetti e ambienti più diversi compaiono sulla scena mediatica soltanto come occasioni di suggestioni esotiche, di immagini illusorie e superficiali, di certo non favorisce un’effettiva conoscenza antropologica, un’occasione non fittizia di comunicazione tra gli individui. Osservando le prospettive spettacolari della globalizzazione telematica, già ampiamente prefigurate da Guy Debord, che ricreano virtualmente il mondo visibile, con la conseguente parcellizzazione e ripetizione delle immagini all’infinito senza alcun senso apparente, non si può che accogliere l’idea di spostare l’attenzione sulla «centralità antropologica della visione, attraverso le forme di rappresentazione per immagini, come modalità di rapporto con l’altro», mirando ad «una elaborazione culturale delle interconnessioni, in modo da potere attivare l’interpretazione dei messaggi così che diventino realmente comunicazione, circolazione di significati» (Antonio Marazzi, Antropologia della visione, Roma, 2002, p. 150). Questo è quanto sono riusciti a compiere Maggi e Montenero alla Fondazione Peano, creando il loro arcipelago di eventi umani, narrati per segni, numeri, ripetizioni, indizi e suggestioni tattili, che diventerà teatro, nel corso dell’inaugurazione della mostra, di un’azione danzante del performer Kappa, al ritmo spontaneo dei battiti della natura.

Enrico Perotto

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